back
img


VALENTINA CONTU | Firenze
Mamma

memories

È iniziato tutto nel tardo settembre 2011. Io avevo 39 anni, ero una donna lavoratrice come tante, avevo due meravigliosi bambini di 1 anno e mezzo e di 4 anni e mezzo, immersa nelle difficoltà quotidiane avevo uno sguardo tutto sommato positivo e fiducioso nei confronti del futuro. Improvvisamente, da un giorno all’altro, la nostra vita familiare mutò irrimediabilmente, colpendoci nel punto più sensibile e caro della nostra unità, i figli. In poco meno di 15 giorni, nostro figlio maggiore, un bimbo sanissimo, pieno di vita e di entusiasmo, si afflosciò come una pianta senz’acqua. Ancor prima che sopraggiungesse la febbre insistente, in grado di mettere in allarme anche il più pacato dei medici, aveva perso interesse alla vita, al gioco, alla scoperta del mondo. Dopo circa dieci giorni dalla comparsa della febbre, fummo ricoverati in oncoematologia pediatrica dove ricevemmo una diagnosi di Leucemia Linfoblastica Acuta ad alto rischio: la risposta ai farmici era scarsa, ma vi era una buona possibilità di risolvere la malattia con l’uso dei soli chemioterapici. In quei primi mesi a partire dalla diagnosi, ho dovuto assistere inerme al dolore fisico e psicologico di mio figlio, senza poterlo sollevare da nessuna sofferenza: potevo solo sostenerlo emotivamente e psicologicamente. E lo feci, come potevo, passando attraverso le emorragie per carenza di piastrine, attraverso l’obesità dovuta al cortisone e attraverso l’isolamento sociale che mio figlio detestava e di cui soffriva enormemente: era raccomandata la lontananza dai bambini, notoriamente portatori di virus pericolosi per un neutropenico. Anche un semplice raffreddore avrebbe potuto mandarci dritti in rianimazione! Proprio quando pensavamo di essere giunti alla fine della fase più dura, arrivò un verdetto stravolgente quanto inaspettato: le cure fatte nei primi due mesi non avevano mandato in remissione la malattia, che invece aveva ricominciato a proliferare. David risultò da ulteriori esami affetto da una traslocazione di recente scoperta. Ci dissero che era un Icarus Positivo, una traslocazione capace di potenziare la malattia e che risultava essere la causa di molti “casi andati male” del passato. Ci fu prospettato Il trapianto come l’unica terapia in grado di guarirlo. Avrebbe avuto, in caso contrario, il 60% di possibilità di ricadute. Ed è davvero molto! Da allora, il team medico si concentrò sulla ricerca di un donatore compatibile. Ma non fu facile. La prima scelta cadde subito sul fratellino che ormai aveva compiuto due anni. I primi esami rilevarono che purtroppo il piccolo non era compatibile e che non avrebbe potuto donare il suo midollo. Da febbraio a maggio la ricerca si svolse all’interno della banca dati mondiale dei donatori di midollo. Dopo un paio di falsi allarmi (due giapponesi sembravano compatibili e disposti alla donazione), la scelta definitiva ricadde su un cordone proveniente dagli USA: le caratteristiche di versatilità delle cellule staminali del cordone avrebbero potuto compensare anche la non completa compatibilità che ne risultava. Seppi allora solo questo di quel bambino-donatore che molto probabilmente ha salvato la vita di mio figlio: che era maschio, statunitense, nato tra il 2002 e il 2010. Durante il periodo di isolamento al TMO dell’Opsedale Meyer di Firenze, durato due mesi esatti, dove è avvenuta l’infusione di cellule staminali, mio figlio è passato attraverso due violente e allarmanti reazioni allergiche, 28 giorni di febbre oltre i 40° per neutropenia, una polmonite bilaterale, GVH cutanea di II e III grado, cistite emorragica e di nuovo GVH intestinale di II livello. Uscì dall’ospedale l’8 di settembre con il corpo ormai ridotto alle sole ossa, ricoperte da un sottile strato di pelle che aveva la fragile consistenza della pergamena; il volto e lo sguardo che ricordavano i bambini reduci dai disastri di guerre e di devastazioni. Ma era vivo. E alla fine di Novembre era di nuovo a scuola. Durante le cure, e infine durante il trapianto, mio figlio ha sempre ricevuto tutte le spiegazioni di cui faceva richiesta: cosa era la sua malattia, le cure che doveva fare e il regime cui avrebbe dovuto sottoporsi per guarire, che c’era un nuovo midollo per lui, in sostituzione del suo malamente impazzito, che qualcuno glielo aveva donato. Una volta riprese le forze, il suo e nostro obiettivo fu quello di rientrare in maniera il più possibile indolore nella vita reale che intanto era andata avanti senza di noi: i bambini erano cresciuti, la scuola era cambiata, i giochi erano diversi… ma fa niente! I bambini ce la fanno… Da allora, sono passati quasi quattro anni, durante i quali siamo lentamente ritornati alla vita normale, attraverso il terrore delle analisi, dei controlli, delle influenze…. David non ha mai chiesto qualcosa di specifico sul suo donatore e sulla sua nuova condizione, almeno fino a un anno fa, quando, all’improvviso e senza un vero apparente motivo: “ma te lo conosci chi mi ha donato il midollo?” Rimasi spiazzata, ma come sempre, gli spiegai e gli dissi cosa sapevo di lui: che era un bambino e che la sua mamma aveva donato il cordone che lo legava a lei durante la gravidanza. Non chiese altro e io non aggiunsi altro! È stata di poco meno di un mese fa la sua ultima domanda in merito: “ma se ho ricevuto il cordone da un bambino, allora vuol dire che il mio sangue è simile al suo e quindi che ho un altro fratello negli USA? Forte!” Beh! poco da dire, i bambini hanno una via preferenziale per capire: in fin dei conti ci vuole davvero poco per diventare fratelli di qualcuno che abita dall’altra parte del mondo!