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Car-T: siamo solo all’inizio
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“Solo 10 anni, fa nessuno avrebbe scommesso tantissimo sugli approcci immunoterapici”. È così che il Professor Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Onco-ematologia pediatrica, terapia cellulare e genica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha aperto il suo intervento in occasione dell’incontro The Future of CAR-T Cell Therapy, organizzato da Finantial Times e Gilead, il 6 febbraio presso il Ministero della Salute a Roma. Eppure, proprio grazie a questi farmaci, “la terapia dei tumori sta vivendo un periodo di assoluto rinascimento”, ha aggiunto e, nell’ambito delle immunoterapie, “le Car-T rappresentano a tutti gli effetti la punta più avanzata, biologicamente e biotecnologicamente più sofisticata”.

È vero, il “farmaco vivente” è assolutamente innovativo. Le cellule Car-T anti CD19 sono dei linfociti, prelevati dal paziente, ingegnerizzati per esprimere dei recettori che permettano di riconoscere un antigene presente alla superficie delle cellule tumorali (il CD19) e attaccarle. Sono state approvate in Europa nel 2018, nei pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta resistenti/refrattari fino a 25 anni e nei pazienti affetti da patologia linfomatosa dai 18 anni in poi che abbiano fallito trattamenti con almeno due linee terapeutiche. L’evento è stata l’occasione per un confronto tra il mondo della ricerca, l’industria e la politica sul futuro di questa nuova terapia, in particolare in Italia.

I due farmaci Car-T in commercio (uno prodotto da Novartis e uno da Gilead) sono stati approvati negli Stati Uniti, così come in Europa, nonostante fossero disponibili solo i risultati di trial clinici di fase due. Questo grazie all’importante innovatività e ai risultati positivi ottenuti in pazienti che altrimenti non avrebbero altre opportunità terapeutiche. Visto però che i dati degli studi condotti fin ora non sono molti e la terapia è assolutamente unica, l’uso clinico nel real life porta con sé molte sfide ed incognite. C’è ancora tanto da scoprire e tanto da fare per ottimizzare il trattamento e adattarlo alla pratica clinica.

Il futuro delle Car-T sta nei prodotti allogenici

Una problematica da risolvere consiste nel fatto che la terapia si rivolge a persone che sono già state sottoposte ad almeno altre due linee terapeutiche. Una parte di questi soffre di linfopenia, non è possibile quindi generare le cellule Car-T a partire dai loro linfociti. Un’altra ragione per cui alcuni pazienti selezionati per il trattamento non riescono a ricevere la terapia è che la malattia progredisce nel tempo necessario a generare le cellule. “Emerge quindi la necessità di avere degli stock manifatturieri immediatamente disponibili”, ha commentato Locatelli. Come è possibile ottenerli? Usando delle cellule provenienti da un donatore sano, ingegnerizzate e pronte all’uso. Un approccio irrealizzabile con i linfociti T, che devono provenire necessariamente dal paziente, ma attuabile con altri tipi di cellule, come i linfociti Natural Killer, e con le Cytokine-induced killer cell (CIK), che sono linfociti T con caratteristiche di Natural Killer. Gli studi condotti dai ricercatori del Bambino Gesù hanno portato alla produzione di cellule Car-NK che, testate nei topi, mostrano un’efficacia comparabile alle Car-T, con minori effetti collaterali. Il Professor Alessandro Rambaldi, del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia all’Università degli studi di Milano, ha raccontato l’esperienza del suo gruppo di ricerca, che è andato in una direzione molto simile: gli scienziati di Bergamo, in collaborazione con Monza, hanno prodotto delle Car-CIK, e hanno mostrato la loro efficacia e sicurezza nei pazienti. Sono tutti prodotti allogenici che, una volta sviluppati, potrebbero consentire il trattamento di oltre 300 pazienti a partire da un singolo donatore sano. Un’innovazione nell’innovazione, che garantirebbe la sostenibilità della terapia, come ha commentato Valentino Confalone, General Manager di Gilead Sciences Italia: “Non ci sarà sostenibilità se non attraverso uno sviluppo tecnologico che vada verso l’allogenico”.

“La ricerca di base deve procedere”

Altre sfide da affrontare riguardano la riduzione degli effetti collaterali associati alla terapia, come la neurotossicità e la sindrome da rilascio di citochine, e le ricadute, spesso determinate dal fatto che le cellule tumorali perdono l’antigene riconosciuto dalle Car-T. In questo senso, un approccio interessante in corso di studio è l’uso di cellule che riconoscano due antigeni diversi, equipaggiate non solo con un recettore anti CD19, ma anche con un anti CD22, per esempio. Ci sono poi tutte quelle questioni che sarà possibile risolvere solo nella pratica clinica, come la quantità di cellule da somministrare ai pazienti. Qual’è la dose giusta? Basta una singola somministrazione o ne occorrono diverse? Si scoprirà nei vari centri specializzati approvati per somministrare la terapia. Nel frattempo però, “la ricerca di base, in laboratorio, deve procedere”, ha ricordato Rambaldi. Una ricerca che consenta anche in Italia lo sviluppo di nuove cellule che risolvano tutte le problematiche di cui abbiamo discusso.

La storia della produzione delle Car-T è iniziata negli Stati Uniti, c’è stato uno sviluppo anche in Cina, mentre in Europa ci sono molti meno siti produttivi. “L’Italia”, ha ricordato Locatelli, “è il Paese in cui l’integrazione tra studi industriali e studi accademici ha funzionato meglio”, ed è anche uno dei Paesi europei che ha sviluppato al meglio degli approcci, sempre basati su questa tecnologia, che possono essere complementari alle Car-T.

Proprio a questo scopo, ha ricordato nel suo intervento il vice-ministro della Salute, Pierpaolo Sileri, l’anno scorso sono stati stanziati 60 milioni per la produzione di Car-T “home-made”. È solo un inizio, ma potrà “garantire alla ricerca e al Servizio sanitario nazionale uno standard altissimo e farà si che le cellule prodotte in Italia possano essere usate anche da altri. Diventeremo un’industria pubblica che potrà servire anche altri Paesi in Europa”. In questo la partnership tra pubblico e privato sarà fondamentale, come ha sottolineato Locatelli. I finanziamenti rappresentano “un’occasione unica di collaborazione sinergica tra accademia e industria”, anche perché l’accademia, per sua natura, non ha la capacità di produrre su larga scala.

Siamo il primo Paese in termini di produzione farmaceutica in Europa, ha ricordato Confalone, “e ci sono i presupposti per esserlo anche nell’ambito delle terapie cellulare”. E ha anche aggiunto che la partnership tra pubblico e privato è fondamentale. Ed è importante che le Car-T prodotte in Italia non si sostituiscano a indicazioni per cui ci sono già dei brevetti: “sarebbe uno spreco e non incentiverebbe le industrie ad investire in Italia”.

Insomma, quella delle cellule Car-T è una storia ancora tutta da raccontare, e l’Italia, a modo suo, sta facendo la sua parte.

Fonte: PopularScience